RICORDI E TEMPO

Ricordo una primavera degli anni '50, la lingua appoggiata al parapetto del poggiolo friggeva: era la strana sensazione che provavo nel sentire assorbire la saliva dalla pietra arsa. Intanto guardavo in alto le evoluzioni di uno stormo di rondini. Ricordo insieme: un corno, un campanaccio, un campanellino, un motore ansimante e lo scalpitio di zoccoli; erano lo spazzino, un carretto, un gatto, un camion Dodge e un cavallo; erano i rumori che provenivano dalla strada. Poi le voci né piane né forti ma cantilenanti per il saluto e l'ultima notizia tramandata non si sa se dalla radio. Ricordo le palle di carta, come bocce sferiche e compatte che mi reggevano mentre mi sporgevo dal poggiolo. Contavo il tempo di uno sputo ad arrivare in strada. Il conteggio personale era fatto con numeri a caso: i miei 5 anni scusavano il non conoscere la sequenza 1- 2- 3- 4- 5; così era 3- 5- 4- 1- 2.
Ricordo la strada, un altro mondo; le trottole e il giro d'Italia fatto con il gessetto e le "grette" (i tappi di latta delle bottigliette di birra, aranciata o chinotto) e poi la "guerra". La "guerra" era con quelli della strada vicina. Quelli erano gli "altri" erano quelli di via Paglia. Guai a invadere il loro territorio; così monopattini, biciclette, carrettini avevano tutti uno stop: oltre non si doveva andare. Pomeriggi interi in strada, fino a sera dove il fischio di mio papà Attilio, interrompeva il gioco.
Ora a pensarci non rimpiango nulla di quei tempi. C'era la miseria dignitosa ma piena di rinunce. I cappotti ritinti e rivoltati, i vestiti ricuciti come le calze rammendate; la scatola del cucito, come la Singer, di terza o quarta mano, erano sempre a mezzo. Un ditale, la palla di legno, un rocchetto di filo o un gomitolo di lana riempivano i giochi con la fantasia, come le giornate di mamme e nonne. E poi quella cucina con il pentolone sempre pieno d'acqua, sul fuoco a bollire; e la stufa al centro ogni anno nuova con una pitturata d'argento. Nei giorni più freddi, la stufa diventava rossa, pareva fondersi anch'essa al calore di un carbone diventato bianco. Era l'orgoglio di mio papà, far diventare la stufa rossa; diventava trasparente e i piedi, le mani anch'esse rosse di "geloni", facevano male. Ora non rimpiango nulla di quei tempi; forse nessuno. Si era da poco usciti dalla guerra e ognuno aveva contato un morto, aveva avuto una perdita e molti giravano ancora con una fascia nera, con il segno del lutto.
Ancora oggi se ci ripenso, il ricordo è in bianco e nero come il cinema di quegli anni. Non riesco a pensare a colori, non riesco a ricordarmi grande allegria. Risate e scherzi sì, me li ricordo: erano le prese in giro per le difficoltà o per le "bambinate". Si ricordo quando Tino se l'era fatta addosso; non poteva abbandonare il gioco in strada per correre in casa e così perdeva la cacca dai pantaloni corti. La pipì era più facile farla, ogni angolo di muro era conteso ai cani. Che risate, il giorno che la perse mentre saltava al "pampano", fu la più divertente, raccolse la pietra e vi depositò qualcos'altro...
Anni passati veloci, in anni dal crescere piano; che strano rapporto del tempo. A volte il tempo sembrava immobile, come nelle giornate di un pomeriggio di sole quando un fascio di luce forte, filtrato dalla persiana, attraversa la stanza buia e nell'immobilità totale vedevo danzare un pulviscolo bianco: fili, strane forme. Quante cose nell'aria che altrimenti non vediamo, galleggiano e respiriamo. Lì o là, il tempo è fermo. Pareva tutto in attesa di un evento forte, di qualcosa che si sà deve arrivare: una festa o una morte, una gioia o un dolore. Così anche ora, noi siamo sospesi, aspettiamo. Oggi il tempo è uguale nella misura: anni, giorni come i mesi. C'è un cambio nelle velocità; insieme agli anni veloci ora c'è il crescere in fretta, ma non è un crescere umano; di esperienze e di sapere, ma un riempire di cose, di notizie, di paure, di ambizioni, di possesso. Non quando e come avrò, ma quanto voglio è la misura dell'essere. Visto e comprato. Visto e preso. Tutto e subito, si dice.
Non rimpiango nulla neanche di questi anni. Riprovo a salire su quel poggiolo, appoggiando la lingua sul piano, un sapore acre e nessun'altra sensazione, se non di gusto, mi colpisce; giro gli occhi in alto, nessuna rondine: non è ancora primavera. Che stagione è? Una voce senza inflessioni proviene dalla stanza dietro di me: "L'omicidio della madre e del figlio minore è stato fatto dalla primogenita Erika con il coinvolgimento del fidanzatino Omar". E' il televisore. La guerra, la guerra non è finita? Mi volto e vedo Chiara e subito mi rincuoro: una donna bella, alta, forte e innamorata. E' mia figlia che mi vuole dare un bacio prima di uscire. Prima di andare alla guerra? Che armi gli ho dato per combatterla? Non lo so, ma una cosa gli ho dato però: il mio tempo. Quel tempo che ora ricordo, gliel'ho scritto; gliel'ho raccontato. Lei, Chiara, ha capito e non servono le parole e nient'altro: lei sa quanto gli basta. Questo è tutto.
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