IL MIO RACCONTO

2/2/1946. "Madonna della Candelora, dell'inverno semo fora". Niente di più sbagliato: faceva un freddo cane quel sabato grasso a Sestri P.. Sabato di festa eppure di lavoro. Le sirene avevano suonato anche quel giorno; a scandire la vita di Sestri erano i "corni": 7,30 - 7,45 - 8 -12 -12,30- 13 -14 -18 19. Tanti erano i "corni" che segnavano il tempo a Sestri: quelli dell' Ansaldo, delle fonderie, della S.Giorgio. Il lavoro segnava la ripresa, la guerra pareva già un ricordo lontano eppure non era passato un anno dalla fine. Sabato grasso a Sestri P., sabato di festa: nascevo io. Nasceva la vita, ero un primogenito, un progetto, una gioia ma anche preoccupazione, sacrificio...
Giorgio è il nome avevano scelto chissà con quale criterio. La S. Giorgio era il nome della fabbrica dove lavorava mio padre, chissà se era per questo omaggio: figlio del lavoro, lo stipendio, la ricchezza veniva da lì. S. Giorgio è il patrono di Genova, è l'uccisore del Drago e proprio l'anno prima nel giorno del 24 Aprile, giorno di S. Giorgio si era celebrata a Genova la fine del Drago fascista - nazista. S. Giorgio, mi piace pensarla anche come data del mio concepimento.
Mio papà Attilio, secco, magro con una vaga somiglianza ad Harold Lloyd, con due spese lenti a far uscire ancora di più gli occhi grandi per la miopia, mio papà quel giorno non stava nella pelle. Tutti quelli che incontrava nel tragitto per giungere a casa lo diceva:" E' nato. Sono papà". Allora giù un "rosso", giù un "bianco", ora un caffè ma anche una grappa; così l'euforia era a pelle e saliva in tutti i sensi di grado. Mio papà Attilio, secco, scarno portava ancora i segni della deportazione in Germania. La stessa fabbrica con cui forse celebrava la felicità nel nome, era stata nel Giugno 1944 una trappola: circondata dai tedeschi, furono rastrellati tutti i lavoratori e caricati su vagoni porta bestiame deportati in Germania, destinazione Mauthausen. Un anno dopo il 1945, dopo un lungo viaggio ritornava a Sestri Ponente: "7 piatti di minestrone: 7 piatti". Così ricordava il ritorno a casa e l'incontro con mia mamma e i miei nonni. "7 piatti di minestrone" che non riuscirono a colmare un vuoto, una ferita e una magrezza che poi negli anni '70, raggiunta la pensione, l'adipe e il sottomento, ne testimoniarono la fine. In Germania aveva conosciuto il terrore, aveva rischiato di essere "giustiziato" sul posto per essersi appropriato di una mela caduta da un albero. Con la fame, lenita da bucce di patata, era calata la vista tanto da far pertinente il detto di non vederci più dalla fame. 2/2/1946. Quella sera mia madre era stremata. Tutto bene, ma non si era sentita mai così esausta. Mia mamma era Nina, Angelina per tutti. Per me fu una mamma angelicata: sapore di latte, sapore di buono, sapore dolce, un sapore purtroppo perso; perso da un oblio, perso da un rimosso di un abbandono non celebrato. Mia madre morì a 40 anni, io avevo 12 anni. Mia mamma morì di tubercolosi, una malattia che me la sottrasse anche prima. Settembre 1957, l'ultima volta che vidi mia madre non potei abbracciarla; alcuni metri e una sbarra ci separavano: erano le misure precauzionali per la malattia che l'aveva colpita, la tbc. Quel ricordo è ancora vivo. Mia madre gonfia per una cura cortisonica che proprio in quegli anni si sperimentava e che forse se scoperta prima la avrebbe salvata, era a pochi metri e non potevo toccarla. Quel mancato abbraccio, a ripensarci, mi manca; anche dopo molti anni lo vivo come una grossa mancanza. Sei mesi dopo sarebbe morta. Io lo seppi in un parlatorio di collegio alcuni mesi dopo. Sono passati più di 40 anni, una vita: amore, figlia, case e lavori e quant'altro la riempiono e la invecchiano, ma quel mancato abbraccio mi fa struggere e mi procura ogni tanto un senso di colpa. Così a volte da collegiale circondato da suore prima e poi preti, rivedevo spesso mia madre in angoli di muro bianco; la rivedevo in sogni come la madonna, la rivedevo in chiesa cui tra voci di preghiera confondevo la mia dicendo solo: mamma.
2/2/1946. Arrivavo in una casa in affitto che aveva 5 stanze più il cesso e la dispensa. Quando arrivai io diventammo a vivere in quella casa in 5; più tardi, con la nascita di Ines, mia sorella, fummo 6. Persi allora il posto più ambito: nel lettone tra mamma e papà. rognavo spesso nel lettino posto al fianco al lettone, rognavo tanto che esausti trovavano il posto anche per me.
Alcuni anni dopo, diventammo in quella casa in 7 quando la piccola stanza adibita a ripostiglio venne subaffittata a Genia. Genia era una signorina di una certa età, per me misteriosa che in seguito mi raccontò a mò di fiaba tutta la sua vita; questo quando mia madre cominciò ad assentarsi per la malattia. Genia mi raccontò dell'Africa, di Asmara, del deserto, dell'Abissinia, dei mori e di cose che reputavo incredibili. Genia mi raccontò di sé, della sua famiglia morta laggiù in Abissinia, così compresi come era sola. Più tardi altre persone che consideravo misteriose, scoprii che avevano tutte, come Genia, una grande solitudine dentro. Il grande letto era nel frattempo diviso tra me e mio papà mentre mia sorella sebbene più piccola era "fissa" nel lettino da sola.
Prima morì mio nonno Pietro, poi con la malattia di mia mamma la casa si svuotò lentamente, mia sorella venne affidata alla zia Mariuccia, la sorella più giovane di mia mamma che aveva già una figlia: Gabriella e Ines diventò come sua sorella. Io, il maschio, già "grande" venni mandato in collegio a finire la scuola e in seguito ad imparare un mestiere. Morì poi, dopo mia mamma, mia nonna che quale governante effettiva della casa che vide svuotarsi, nel frattempo cominciò anche per via dell'arteriosclerosi a maledire tutti. La casa rimase a Genia che alla fine occupò anche le altre stanze. Mio padre si fece assegnare una casa popolare più piccola e con un più basso affitto. La mia famiglia si era dissolta. Si era dissolta insieme ad un tipo di società tenuta insieme da una miseria diffusa e per questo sentita da uguali, tenuta insieme soprattutto da un valore che ne è quasi l'anagramma: il lavoro.
Ogni luogo era lavoro e coniugato all'economia della penuria, povertà. Quei pentoloni neri perennemente sul fuoco di cucine economiche a carbone o a legna; quei profumi di cavoli e fagioli, erano frutto di un incessante lavoro nelle case, come le strade popolate solo di bambini e carri erano il frutto di un continuo lavoro nelle fabbriche: la nostra università. La strada intanto in quegli anni '50 era la mia vita . "I ragazzi della via Pal", lo avrei letto dopo ma li avevo vissuti nella mia strada: via C. Corradi. Quella strada era il mondo, il territorio dove si svolgeva il gioco, per noi ragazzi, la vita.. Ginocchia sbucciate, tagli alle braccia, gomiti spellati..."Pisciaci sopra", quella era la cura delle ferite. Intanto si pisciava dappertutto, negli angoli di quella strada a segnare anche noi come gli animali il territorio, ma soprattutto per non perdere tempo a salire in casa e farla in un cesso alla turca: un foro su un piano d'ardesia e sul muro un chiodo dove i ritagli di giornale, "Il Secolo XIX" o "Il Lavoro" acquistavano la dimensione più utile. La merenda veniva gettata giù dalla finestra. Un fischio o un nome urlato, interrompeva il gioco: un panino, condito con aglio olio e sale, fasciato nella carta straccia, cadeva dal cielo; era divorato in un momento tra la fame e il gioco.
I "giri d'Italia" con le "grette", i tappi di gazzosa. Secondo le stagioni i disegni fatti col gesso nella strada mutavano: dal Pampano, al Giro; mutavano i giochi dai "4 cantoni" alla "zuiarda", la trottola di legno, i carretti con i cuscinetti. Giochi d'antan, giochi persi al cambiamento, giochi in cui la fisicità era sempre presente, consumava ginocchia e scarpe, gomiti e legni. Canzoni alla radio sulla mensola sopra il tavolo in cucina: un tavolo robusto con piano di marmo e incassata la tavola di legno per impastare e il mattarello per stendere la sfoglia. Quella tavola di legno diventava la mia scrivania, posta in basso con la mia seggiolina a fare le aste, le croci, i "per": interi quaderni riempiti di geroglifici senza senso. 25 anni dopo mia figlia Chiara scriverà, il primo giorno di scuola, la parola: erba. Impiegherà tutto un pomeriggio e finirà la scritta fuori dal quaderno ma finalmente in un giorno era nata l'erba. Mia nonna parlava in piemontese con mia mamma e mio nonno, mio papà parlava in genovese con mia mamma e i suoi parenti; con me parlavano tutti in italiano: se no va male a scuola, dicevano, ma certo non serviva poiché nei miei "pensierini" andavo sempre a giocare nella "gea" e "belin" mi "demuavo" tanto. Erano gli anni '50, gli anni della ricostruzione, ora mi rimangono delle foto in bianco e nero ad aiutare la mente: la prima comunione, foto di rito con gli abiti della festa, la fascia al braccio e le mani giunte davanti al mobile buono. Le foto con i giocattoli ed io con il broncio a guardare geloso quello in mano a mia sorella: un parallelepipedo di legno colorato con le ruote. Mia sorella con il fiocco in testa: un bambolotto rosa; una carrozzella, carrozzata tipo auto, sul lungomare di Pegli. Già il lungomare di Pegli: per noi di Sestri P. la riviera iniziava lì, si raggiungeva a piedi e il mare era disponibile a tutti. Pegli era la festa, era l'aria buona, era l'altra parte di Nervi. Pegli per me era Castelluccio, i bagni Doria, la Pria Pulla; a Pegli si poteva incontrare i turisti venuti da Alessandria, Novi Ligure, da Crema, da Pavia...Pegli era per me i primi amori, ricordo Mariella di Vernasca, provincia di Piacenza: era bastato solo un ballo, una sola serata a farmi sentire innamorato; non c'era stato che un bacio senza lingua, un bacio goffo a bocca aperta ad alitare emozioni. Pegli era la mia compagnia in prevalenza formata da studenti che io, già operaio diciottenne, frequentavo felice della mia conquistata autonomia a differenza di loro studenti. Uguali avevamo i sogni.
A Pegli, come a Sestri P., come ovunque i ricchi erano quelli che già lo erano, lo era la figlia del dottore, del farmacista, il figlio del tal direttore di stabilimento, del proprietario di 2 negozi in centro da 2 generazioni. Da lì a poco anche i figli degli operai sarebbero diventati "dottore"; da l' a poco il mondo si trasformò...
Erano iniziati gli anni '60: si passò per il "boom economico", dalla contestazione giovanile; arrivarono i Beatles, il Maggio francese e l'autunno sindacale del '69, vennero gli attentati terroristici e con gli anni '70 le Brigate Rosse. Quegli anni '70 non furono solo terrorismo, per me ci fu l'incontro con Anna, l'amore vero e la nascita di mia figlia Chiara, la gioia. In quegli anni cambiai lavoro o meglio lasciai il mestiere di litografo per entrare come rotativista al Secolo XIX. Nel giornale seguii la rivoluzione informatica: sparì il piombo, le linotype e attraverso l'elettronica e i computer avvenne la trasformazione mediatica. Si era imboccata una strada di non ritorno, il mondo subì una accelerazione vorticosa che non è ancora cessata. Lo constatammo passando dalla '500 (di cilindrata) alla "1200" in un crescendo di comfort e velocità. Siamo più ricchi ma più nevrotici; più longevi, ma più malati, più giovani in possibilità, ma ancora avremo degli abbracci mancati, ancora avremo delle gioie di nome Chiara e soprattutto riusciremo con le lacrime e l'allegria a scoprire l'amore che si ha già, che per me porta il nome Anna.
Oggi 2000, si celebra la fine del secolo XX con il Capodanno; si celebra la modernità che è finita: ci scopriamo postmoderni. Oggi abbiamo scoperto la "terza età", perchè la vecchiaia inizia più tardi. Oggi ho avuto l'occasione di scrivere un racconto che è uno scorcio di vita, è l'occasione per trasmettere un testimone ad un postero. Si dice che con la vita ognuno scrive un libro, io ho voluto riempirlo di parole; sono parole del ricordo, del momento dopo, le parole da dire agli altri: le parole vissute. Per questo è nato il racconto, a raccogliere la vita, a preservarla a renderla preziosa. Giù pagine uguali seppur diverse nel disegno; giù pagine come giorni e ritrovi cose diverse seppur comuni. Ritrovi te che pensavi perso.
TORNA